
Giustizia e Potere: Il Rischio di un Controllo Politico Senza Precedenti
In questi giorni, la lettura di alcuni articoli sulla stampa riguardanti la tanto discussa separazione delle carriere dei giudici non può che suscitare un’amarezza profonda. Sotto la patina di riforme atte a migliorare l’efficienza del sistema giudiziario, si cela un disegno inquietante che, nonostante le smentite di corridoio, sembra destinato a mettere in discussione uno dei pilastri della democrazia: l’indipendenza della magistratura. L’idea che i pubblici ministeri possano finire sotto il controllo diretto del Ministero degli Interni, ovvero della polizia, rappresenta un vulnus gravissimo per l’autonomia della giustizia. Una giustizia che, così configurata, rischia di trasformarsi in uno strumento manipolabile dal potere esecutivo.
Non basta. A questo si aggiunge la proposta di affidare le sanzioni disciplinari ad un nuovo organismo che, secondo indiscrezioni, potrebbe includere soggetti esterni alla magistratura. Una scelta che, di fatto, smantella l’autonomia interna del sistema giudiziario e apre la strada a pressioni indebite da parte di poteri esterni. Quale magistrato, di fronte a questa prospettiva, si sentirà libero di emettere sentenze scomode? Chi avrà il coraggio di condannare qualche pezzo forte della politica o della finanza sapendo che il proprio operato potrebbe essere passato al vaglio di un organismo che risponde a logiche estranee alla giustizia?
E poi, come non indignarsi davanti a certe dichiarazioni? L’idea di dedicare questa riforma a Silvio Berlusconi, avanzata dai figli e da esponenti di Forza Italia, è un insulto al buon senso e alla memoria collettiva. Una legge che mina l’indipendenza dei magistrati e che, nei fatti, potrebbe garantire una maggiore impunità ai potenti, non può essere vista come un omaggio, ma piuttosto come un atto di resa. Una resa a quelle stesse logiche che per anni hanno trascinato nel fango la credibilità delle istituzioni italiane.
C’è da chiedersi come sia possibile che, nel nostro Bel Paese, ci sia ancora chi osanna figure che hanno rappresentato, per molti, un simbolo di discredito. Un popolo che celebra certi personaggi sembra aver smarrito la propria coscienza etica. Non è una questione di schieramento politico, ma di valori condivisi, di quella capacità di discernimento che dovrebbe essere alla base di una comunità coesa e consapevole. E invece, siamo qui, a fare i conti con un paese che fatica a riconoscere il danno profondo che certe figure hanno inflitto al tessuto morale e sociale.
Per chi osserva con occhi critici, è difficile, se non impossibile, attribuire un briciolo di positività alla figura di Berlusconi. Al di là delle narrazioni di parte, resta il fatto che il suo lascito è stato segnato da scandali, conflitti di interesse e una gestione del potere che ha spesso anteposto gli interessi personali a quelli collettivi. Eppure, c’è chi continua a osannarlo, a volerlo elevare a simbolo di qualcosa che non è mai stato.
La verità è che abbiamo la classe politica che ci meritiamo. Un popolo che non si indigna, che non reagisce di fronte a certe storture, è un popolo che accetta passivamente il proprio destino. E finché questa passività persisterà, non ci sarà speranza di un cambiamento reale. Perché il cambiamento non nasce dalle riforme imposte dall’alto, ma dalla presa di coscienza di ciascun cittadino.
Questa è la triste verità che ci troviamo a fronteggiare. In un paese che dovrebbe essere culla di civiltà e giustizia, ci troviamo invece a fare i conti con un presente che sembra tradire ogni promessa di progresso. Una domenica amara, dunque, in cui l’indignazione non basta più. Serve una reazione, un risveglio collettivo, per impedire che l’indipendenza della magistratura venga sacrificata sull’altare di interessi personali e di parte. Perché una giustizia indipendente è l’ultimo baluardo contro l’arroganza del potere. E se lo perdiamo, perdiamo tutto.

